Per una strana coincidenza che probabilmente non è tale, a distanza di un giorno ho visto al cinema due film che è naturale mettere a confronto, ma che al tempo stesso mi portano a mettere uno di fronte all’altro due viaggi recenti e due città apparentemente agli antipodi, New York e L’Avana.
I film in questione sono due documentari, uno ancora in sala (The Beatles – Eigth Days a Week: the touring years) e uno che purtroppo è stato proiettato come evento un solo giorno (The Rolling Stones – Havana Moon).
Il primo è un documentario per lo più basato su materiale d’archivio che racconta i Beatles tra il 1962 e il 1966, ovvero gli anni che corrispondono non solo alla nascita e affermazione del “fenomeno” Beatles, ma anche agli unici in cui il gruppo inglese ha cantato dal vivo, prima di dedicarsi esclusivamente al lavoro in studio di registrazione. Di questi “touring years”, come da titolo, il film si sofferma naturalmente sui concerti negli Stati Uniti, e come una sorta di “bonus track” regala, dopo i titoli di coda, la versione rimasterizzata del concerto più famoso, quello mitico allo Shea Stadium di New York. Il secondo film è invece tutto concentrato su un solo concerto, ma a suo modo storico: quello gratuito che i Rolling Stones hanno tenuto lo scorso 25 marzo a L’Avana, marcando simbolicamente, anche grazie ad una partecipazione enorme di pubblico, l’apertura di nuovi spazi di libertà per i cubani.
Sul piano puramente cinematografico, tra i due film non c’è storia: quello sui Beatles vince a mani basse. Un po’ forse per una questione generazionale tra i due registi, e non solo in termini di esperienza: Ron Howard è del 1954, e ha quindi vissuto almeno parte della storia dei Beatles da teenager (ha raccontato che, dopo averli visti all’Ed Sullivan Show, ha chiesto e ottenuto in regalo una parrucca “alla Beatles” per il suo decimo compleanno), mentre Paul Dugdale è del 1980. Ma forse anche per una questione di differenti obiettivi, che rendono per questo i due film difficilmente confrontabili: quello di Ron Howard è un vero e proprio film documentario, con un grande budget e una ricerca di materiali inediti andata avanti per anni, ma soprattutto con l’intenzione di raccontare una storia dal taglio ben preciso, centrata sui tour dal vivo del gruppo; Havana Moon non va molto al di là della ripresa (per quanto ben fatta) del concerto de L’Avana, con qualche piccola dichiarazione dei Rolling Stones in testa e in coda.
Il primo emoziona e coinvolge proprio perché segue una storia, il secondo documenta un evento a suo modo storico ma sconta tutta la difficoltà di restituire la sensazione del live a cinema. Personalmente ho bisogno di qualcosa in più, e allora per rimanere in tema Rolling Stones preferisco Shine a Light di Martin Scorsese, che gioca con il live con ironia, mettendosi anche direttamente in scena, e utilizza saggiamente anche un po’ di archivio.
Quello che forse si può invece confrontare è il concerto allo Shea Stadium, presentato fresco di restauro in coda al film di Howard, con il concerto dei Rolling Stones a L’Avana. In entrambi i casi si tratta di concerti storici: quello di New York è l’evento che ha dato il via alla stagione dei grandi concerti negli stadi, riuscendo a riempire tutti i 55.000 posti disponibili, ed è allo stesso tempo un concerto iconico e una tappa fondamentale del percorso dei Beatles; quello alla Ciudad Deportiva di L’Avana è un grande evento di pubblico (pare tra 500.000 e 1,2 milioni di spettatori, e dalle immagini sembra più ragionevole la seconda ipotesi) che fino a qualche anno fa sembrava impossibile anche solo immaginare. Certo, un concerto di 50 anni fa e uno di oggi, eppure i cortocircuiti tra i due eventi sono molteplici, ai quali aggiungo i miei personali per essere stato a pochi mesi di distanza in due città solo apparentemente così diverse come New York e L’Avana.
Dave Schwensen ha scritto sul concerto di New York un intero libro (The Beatles At Shea Stadium: The Story Behind Their Greatest Concert) che in un’intervista ha dichiarato avrebbe voluto sottotitolare “The Birth of Stadium Rock”, perché prima di quel concerto nessuno, nemmeno Elvis, era riuscito a raggiungere quei numeri e a riempire un intero stadio fino all’ultimo posto disponibile: un record che sarebbe rimasto tale, Woodstock esclusa, fino al 1971. Tra i 55.000 fortunati del pubblico, perché molti rimasero senza biglietto, c’erano anche Mick Jagger e Keith Richards.
A L’Avana, 50 anni dopo e diverse rughe in più, mentre gli stessi Jagger, Richards & co. si esibiscono davanti ad una folla oceanica da far invidia alle adunate dei bei tempi di Fidel Castro, a soli 4 km di distanza qualcuno si fa una foto vicino alla statua a grandezza naturale di John Lennon, vicinissima al Centro Cultural Submarino Amarillo, un locale aperto nel 2011 e dedicato ai Beatles e alla musica degli anni ’60. Potrebbe apparire tutto normale, ma non lo è in un paese dove tra il 1964 e il 1966 ascoltare il gruppo di Liverpool costituisce reato e dove, anche quando la fase più dura del bando della musica rock comincia ad attenuarsi, la censura sui Beatles dura fino al 1971, quando finalmente è permesso mandarli alla radio. Ora, è normale che i Rolling Stones abbiano giocato con l’importanza storica del concerto, lo si vede bene già dal trailer del film. In realtà che la rivoluzione avesse cambiato idea sul rock era evidente già da qualche anno: non a caso nel 2000 è lo stesso Fidel ad inaugurare la statua di John Lennon, che da pericolo pubblico viene invece omaggiato allora con un bel salto mortale come un rivoluzionario osteggiato dal suo stesso governo e dall’onnipresente CIA; l’anno successivo è lo stesso lider maximo ad assistere al primo vero concerto rock di un gruppo anglosassone, quello che i Manic Street Preachers hanno tenuto al teatro Karl Marx (lo stesso teatro che aveva ospitato nel 1979 vari artisti americani, tra i quali Billy Joel, in un festival di tre giorni chiamato Havana Jam, che però era solo ad inviti e quindi non pubblico). Ma è pur vero che le dimensioni contano, e i 5000 spettatori del gruppo rock gallese non reggono il confronto con le centinaia di migliaia dei Rolling Stones, e che la “storicità” del concerto è data anche dalla “storicità” del gruppo: seppur non messi al bando come i Beatles (ma poi non erano i Rolling Stones quelli brutti, sporchi e cattivi?!?), facevano parte a pieno titolo di quei gruppi rock disapprovati dal regime perché considerati portatori di un’ideologia controrivoluzionaria. Il clima dell’epoca per i cubani lo spiega bene questo articolo:
Those bands and many others like them were seen as the height of “enemy ideological penetration” and we were only able to listen to them in versions recorded by mediocre Spanish groups or in the version of some Mexican singer whose name I’d rather not remember. In those days, long hair and necklaces made of seeds made fashionable by Fidel Castro’s “barbudos” (bearded rebels) were frowned upon and on some occasions repressed with, shall we say, not a whole lot of courtesy. English was fine if you learned it at school, but you couldn’t sing it; “Make love and not war” was a “counterrevolutionary motto” because it went contrary to the guerrillas; drawing the peace symbol in a school notebook was worse than drawing the swastika; free love was synonymous to licentiousness and we were constantly being admonished about how most of our Rock idols were drug addicts. Ironically, some of our Cuban musicians who were being promoted to provide a replacement for the British and American singers were suspected of smoking a marijuana cigarette from time to time (hush-hush of course) but then they were perhaps being backed by the popular slogan that said: “Consuming our country’s products is patriotic.”
(dalla rivista online LaHabana.com, trovate l’articolo completo qui)
In effetti una delle cose che mi sembra manchino in Havana Moon è proprio un po’ più di contesto, magari qualche voce cubana, per rendere meno massa indistinta la marea di spettatori che ha assistito al concerto. C’è un video da Cuba che supplisce un po’ a questa assenza, con le interviste al pubblico in fila prima dell’apertura dei cancelli:
Ad un certo punto del video, durante le interviste, si vede una bandiera portata da un gruppo di ragazzi colombiani con la scritta “Colombia en paz” e l’immagine iconica di Che Guevara arricchita con la bocca e linguaccia rossa dei Rolling Stones, che mi sembra racconti perfettamente lo stato attuale dell’isola caraibica e della sua rivoluzione. Perfino Granma, il serioso quotidiano ufficiale del partito comunista di Cuba, ha scritto diversi articoli sull’evento. In uno di questi vengono intervistati alcuni ragazzi che, come quelli del video, hanno passato la notte in fila per entrare per primi sul prato del concerto. E Granma del 2016 può tranquillamente riportare la frase di un cubano di Sancti Espiritu che per assistere allo show, insieme ad un gruppo di amici, ha pensato bene di affittare un intero autobus: “Yo tenía que presenciarlo, por la gente que no vino, por los amigos que se lo van a perder, por las generaciones anteriores que no pudieron verlo”.
Bisogna ammettere però che il concerto dei Rolling Stones è perfetto e forse diventerà davvero storico per il suo tempismo. Il riavvicinamento tra i due nemici, tra Stati Uniti e Cuba, dopo l’incontro tra Obama e Raúl Castro in occasione del funerale di Mandela, alla fine del 2013, ha subito un’accelerazione improvvisa nell’ultimo anno, con il ripristino delle relazioni diplomatiche, la stretta di mano di Panama, la dichiarazione di Obama sul superamento dell’embargo e infine la visita dello stesso presidente statunitense a L’Avana, il 20 marzo. E il 20 marzo era proprio la data prevista per il concerto dei Rolling Stones. La soluzione? Data del concerto spostata in avanti di cinque giorni, e una dichiarazione geniale del gruppo: Obama è l’apertura del concerto, come a dire il gruppo spalla, il supporter! Due eventi a pochi giorni di distanza per una settimana che deve essere sembrata folle per gli habaneros. Come due lati di una stessa medaglia, ma apparentemente entrambi positivi. La politica, certo, ma anche la società. La prospettiva del cambiamento, da un lato, e un cambiamento immediato e una soddisfazione immediata, dall’altra. Chissà cosa hanno considerato come più importante i cubani. D’altra parte, il potere della musica sul cambiamento culturale non è solo testimoniato dai tanti episodi di (inutile) censura, non solo quelli del regime cubano, ma anche da piccoli grandi atti diretti e a loro modo rivoluzionari. Mi sembra giusto, per fare un esempio in questo senso, tornare al documentario di Ron Howard.
Nel corso del loro tour americano del 1964 i Beatles (che ricordiamolo, allora avevano un’età compresa tra i 21 e i 24 anni) si trovarono a suonare anche nel profondo sud degli Stati Uniti. Il movimento per i diritti civili stava dispiegando il massimo sforzo: la manifestazione a Washington e il discorso di Martin Luther King l’anno precedente avevano contribuito a far approvare il Civil Rights Act proprio nell’estate del 1964, ma la situazione non era ancora cambiata granché e le marce di Selma avrebbero visto la luce solo l’anno successivo. I Beatles rilasciarono delle dichiarazioni molto nette contro la segregazione di fatto ancora presente (un argomento molto caldo in una nazione che non esitava ad uccidere sulla questione) e soprattutto agirono con i fatti: dichiararono che non avrebbero suonato senza la garanzia che il pubblico non fosse oggetto di segregazione, perché, nelle parole di Ringo Starr, “we played to people. We didn’t play to those people or that people – we just played to people”. Il banco di prova fu il concerto di Jacksonville, Florida, dell’11 settembre 1964, dove le autorità locali decisero di non forzare la mano e accettarono le condizioni del gruppo, generando un precedente che nel documentario è raccontato con poche ma emozionanti battute di una dottoressa di colore, all’epoca una ragazzina che si ritrovò per la prima volta non solo ad essere “mischiata” con altri ragazzi bianchi, ma anche a condividerne le stesse emozioni.
Allora, tornando ai due documentari e ai due concerti: un grande evento mediatico, una folla record di giovani, un simbolo di cambiamento generazionale. Non è che in fondo allo Shea Stadium e alla Ciudad Deportiva si sia tenuto lo stesso concerto? In fondo stando a Cuba si ha spesso la sensazione di fare un viaggio nel tempo. Allora non è che che era al concerto dei Rolling Stones stesse assistendo contemporaneamente, in un’epica riunificazione degli opposti o presunti tali, anche a quello dei Beatles? Un po’ una sorta di ghost track dal vivo, invece che su un disco, di quelle che sarebbero piaciute ai Beatles.
A me è capitato spesso, nel corso di questa estate newyorkese, di pensare a Cuba. Non solo perché ho passato lo stesso numero di settimane in un posto e nell’altro a pochi mesi di distanza, ma perché New York e L’Avana, Stati Uniti e Cuba, sembrano a tratti lontanissimi nel tempo e nello spazio e a tratti vicinissimi, compresenti e contemporanei. Così vicini e così lontani, per rubare un titolo altrui. Deve esserci qualche alterazione dello spazio/tempo che genera fenomeni inediti e imprevisti. Per questo mi sembra giusto assecondare questa sensazione e raccontarle d’ora in poi in parallelo, perché forse anche solo accostandone le storie, mettendole semplicemente vicine, può darsi che si riesca a capire meglio ciascuna di esse prese singolarmente.
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