Sono rimasto un po’ indietro nel diario di viaggio e quindi recupero un po’ accorpando e riassumendo i tre giorni a Kanchanaburi, piccola cittadina a nord-ovest di Bangkok, nella direzione del confine con la Birmania.
Il treno è il modo migliore per arrivare a Kanchanaburi, se non altro perché la ferrovia è legata a due delle attrazioni principali, il ponte sul fiume Kwai e la cosiddetta Death Railway, la ferrovia della morte. Peccato che da Bangkok di treni ce ne siano solo due, uno alle 7.45 e l’altro alle 13.55: entrambi partono dalla piccola stazione secondaria nel quartiere Thonburi.
Il treno è solo di terza classe ma non è niente male, con i suoi piccoli ventilatori che sembrano quelli di casa, e le tre ore di viaggio scorrono velocemente guardando il paesaggio scorrere fuori dal finestrino. La cosa più divertente da osservare sono però i venditori ambulanti di cibo e bibite che salgono e scendono continuamente dal treno offrendo una scelta invidiabile di spuntini preparati da loro.
A Kanchanaburi l’attrazione principale è proprio il ponte della ferrovia che rappresenta forse l’unico caso di un ponte che è riuscito a cambiare nome al fiume che attraversa.

L’autore del libro dal quale è stato poi tratto il famoso film ambientato durante la seconda guerra mondiale, infatti, non aveva mai visitato i luoghi e così ha confuso il fiume Mae Khlong con il suo affluente, il fiume Kwai. Dopo il successo del film del 1957 e il conseguente arrivo di un gran numero di turisti, il governo thailandese per porre fine una volta per tutte alla confusione, acuita dal fatto che il film è stato per di più girato in Sri Lanka, decise infine di rinominare il fiume Mae Khlong in grande Kwai, facendo diventare l’altro il piccolo Kwai. Detto ciò il ponte è solo un ponte, ma nonostante tutto il caos che si crea quando passa il treno (sei volte al giorno) è un posto piacevole e rilassante che vale la pena di essere visto. E poi potete attraversare a piedi un ponte ferroviario, cosa che non capita certo tutti i giorni!
I miei polmoni e quelli di Gerard hanno talmente apprezzato l’aria pulita e il relax di Kanchanaburi, dopo lo smog e l’affollamento di Bangkok, che il secondo giorno ci siamo lanciati in una lunga gita in bici per esplorare i dintorni. Detto che affittare la bici è economicissimo (per un’intera giornata 50 baht, ovvero 1,33 €) e che la condizione delle strade è decisamente migliore di quelle di Roma e dintorni (ma ci vuole davvero poco), andare in bici qui è davvero piacevole, soprattutto scegliendo strade secondarie e il più possibile seguendo il lungofiume, come abbiamo fatto noi. Nel lungo giro ad anello abbiamo incluso i due templi relativamente moderni di Wat Tham Sua e Wat Tham Khao Noi, ma soprattutto il Wat Ban Tham, il tempio che ci è piaciuto di più finora.
Per arrivarci bisogna salire una quantità notevole di scale, in parte costruite all’interno di un lungo dragone in stile cinese nel quale bisogna letteralmente entrare in bocca, e si finisce poi all’interno di una caverna. La leggenda vuole che qui siano intrappolate le anime di una donna e di suo figlio mai nato, uccisi dall’amante di lei in una storia d’amore tragica e un po’ shakesperiana: per questo nel tempio vero e proprio vengono offerti in gran quantità vestiti per la mamma e giocattoli per il bimbo, con un effetto tra il commovente e il kitsch, ma più tendente al kitsch a dire la verità… c’era perfino un tappetino di Winnie the Pooh! Se poi si ha voglia di fare altre scale, c’è un altro santuario sopra la cava, in cima alla collina, da dove il panorama sul fiume è invidiabile.
A parte vedere tante cose lungo la strada come un taglio di capelli collettivo nel cortile di una scuola, la gita in bici ci ha portato anche al primo incontro vero con la gentilezza thailandese. Dopo una decina di chilometri Gerard buca una ruota della sua bici, ma ci troviamo in mezzo al nulla, lontano da centri abitati. Ci fermiamo da un piccolo commerciante lungo la strada chiedendo aiuto, poi chiediamo ad un ragazzo che si ferma per comprare qualcosa. Ci dice che non c’è problema e ci aiuta a caricare le bici sul suo pick-up. Nel frattempo si ferma una macchina, scende un poliziotto che si vuole accertare che il ragazzo ci stia effettivamente aiutando, e per la nostra sicurezza si fa scattare una foto insieme a noi e chiede il numero del ragazzo, controllando che effettivamente il suo telefono squilli. Questo in realtà lo abbiamo capito dopo, perché mentre veniamo portati dietro una cava in un posto apparentemente isolato, qualche piccolo dubbio ci è sorto…
Invece il ragazzo thailandese aggiusta la ruota in poco tempo e ci riporta non solo indietro ma addirittura al Wat Ban Tham dove stavamo andando, e per la mezz’ora impiegata, lavoro compreso, non accetta assolutamente denaro da noi, ma se ne va con il sorriso e lasciandoci piacevolmente stupiti. Devo dire che poi Gerard, prima della fine della nostra escursione di quasi 40 km, buca pure l’altra ruota, ma per fortuna quando siamo abbastanza vicini a Kanchanaburi da arrivarci prima che la camera d’aria si sgonfi del tutto. Disavventure con le foratura a parte, il lungofiume ha dei tratti davvero bucolici, tra allevamenti di pesci e placidi panorami.
Il giorno seguente abbiamo ripreso il treno per arrivare fino ad Hellfire Pass, dove la linea ferroviaria si interrompe.
Questo tratto è molto più affollato da turisti, i quali arrivano in massa con l’autobus per fare una gita in giornata da Bangkok, salgono sul treno a Kanchanaburi, passano sopra il ponte del film e scendono dopo un altro impressionato ponte sullo stesso fiume. Il paesaggio in questo tratto è effettivamente più interessante, con scorci notevoli sul fiume e le montagne circostanti. Noi siamo arrivati fino a Nam Tok, alla fine della linea, un po’ per esplorarne i dintorni in uno dei pochi parchi naturali non a pagamento, ma soprattutto per arrivare ad Hellfire Pass, una ventina di chilometri oltre Nam Tok, dove c’è un museo e un memoriale dedicato alla Death Railway. Si tratta di circa 400 km di linea ferroviaria costruita durante la seconda guerra mondiale dai giapponesi per connettere Bangkok con Rangoon per ragioni strategiche, utilizzando come forza lavoro prigionieri di guerra Alleati (soprattutto inglesi, olandesi e australiani) e lavoratori asiatici in condizioni di semi-schiavitù. Le condizioni igienico-sanitarie, la durezza del lavoro, i maltrattamenti da parte dei soldati giapponesi e la scarsità di cibo portarono ad un costo altissimo in termini di vite umane, stimato in almeno 120.000 persone. Oltretutto la linea ferroviaria, finita nel 1943, fu chiusa nel 1947 ed è stato riattivato solo in seguito solo il tratto thailandese che arriva appunto fino a Nam Tok.
Il museo di Hellfire Pass è ben allestito anche se più che altro didattico, con pochissimo materiale originale in esposizione; più interessante la lunga passeggiata lungo il percorso originario della ferrovia, con diversi punti di interessi spiegati da un audio guida gratuita fornita dal museo. I sentieri sarebbero interessanti già di per sé come escursione perché il paesaggio qui è molto bello, con pochissimi interventi umani visibili nella valle. Museo e sentieri sono finanziati dal governo australiano, che ha scelto di onorare così uno degli episodi più tristemente noti della “loro” seconda guerra mondiale.
Per arrivarci da Nam Tok abbiamo preso il nostro primo sangthaew, una sorta di pick-up con una copertura dietro e due panche parallele per i passeggeri, contrattando il prezzo da 500 a 200 baht (5,30 € per più di 20 km), mentre al ritorno l’autobus ci ha portato direttamente a Kanchanmaburi.
Un’ultima cosa importante da dire su Kanchanaburi, dove siamo rimasti un giorno in più del previsto, è che si mangia benissimo. A parte spuntini vari e locali più o meno alla moda (tra i quali un bellissimo caffè, il Library Cafè), i tre posti dove abbiamo cenato ci sono piaciuti tantissimo e sono molto consigliati. Il Blue Rice, in una panoramica posizione sul lungofiume, è un po’ più costoso (relativamente parlando: 7,5 € per la cena) ma è molto accogliente, la gestrice parla un ottimo inglese e vi sa dire tutto sui suoi piatti anche perché offre corsi di cucina, e soprattutto il cibo è davvero spettacolare: io ho provato un buonissimo Massaman Curry, un piatto di origine persiana ma rielaborato con spezie dell’estremo oriente, davvero gustoso, accompagnato dal caratteristico riso blu del locale, che deve il suo colore all’estratto di un fiore.
On’s Thai Issan è invece un piccolo locale vegetariano che offre anch’esso corsi, dove c’è una bella atmosfera, il cibo è squisito e molto economico (60 baht o 1,6 € per ciascuno piatto, la metà per degli ottimi frullati) e dove il mio secondo Mussaman Curry ha decisamente retto il confronto con il primo.
Infine c’è il tipico night market thailandese, che a Kanchanaburi è di fronte alla stazione ferroviaria: da noi lo chiameremmo street food festival e sarebbe costosissimo e alla moda, qui è usato da locali e turisti allo stesso modo ed è un’esperienza culinaria multisensoriale. E’ davvero difficile non provare tutto perché ciascun venditore si concentra su pochissime specialità, e odore e aspetto sono spesso molto invitanti: combinate il tutto con il fatto che si spende per ogni assaggio dai 2 ai massimo 30 baht (da pochi centesimi di euro a 80 centesimi) ed ecco che si scatena la tempesta perfetta per il nostro animo gourmet, per cui è difficile allontanarsi senza essere strapieni da un posto così ricco di tentazioni, per di più così economiche. E’ stato il primo impatto con il night market thailandesi, ma già progettiamo di visitarli in tutte le città che vedremo!
Ciao è tutto così bello e il Blu del riso poi! !
Sì il riso blu è davvero elegante… E anche fondamentale per accompagnare il curry che è bello piccantino!
Andrea scrivi così bene che mi sembra di essere li con voi. Sarebbe bello. Un abbraccio.
Grazie Cecilia. Sì sarebbe davvero bello, come ai vecchi tempi… Un abbraccio a te
Sono d’accordo con Cecilia e Rosaria. Grazie per le emozioni che ci fai vivere.
Grazie a te di avere la pazienza di seguirmi!