Abbandonata malvolentieri Chiang Mai, una strada molto panoramica che attraversa le montagne e diversi parchi naturali ci porta in circa 3 ore a Chiang Rai. Guardando il paesaggio mi riprometto mentalmente di tornare nel nord della Thailandia per esplorarla in profondità, magari stavolta con una bella patente internazionale per affittare una macchina.
C’è un po’ di timore nell’arrivare a Chiang Rai, dopo tanti bei giorni passati a Chiang Mai. L’arrivo nella vecchia e polverosa stazione degli autobus non promette niente di buono, invece la guesthouse prenotata è molto confortevole e un primo giro di perlustrazione ci conferma che è davvero tutta la regione ad essere attraente. Chiang Rai è naturalmente molto più piccola e meno turistica, ma c’è anche qui un festival dei fiori che va avanti da due mesi e diversi localini carini. Ma soprattutto siamo molto fortunati perché è domenica, il giorno del mercato serale settimanale del Thanon Khon Muan. Si tiene tra le 18 e le 21 in una strada pedonalizzata per l’occasione, ed è semplicemente il più bel night market incontrato in Thailandia. I turisti sono pochi, gli stand tantissimi con la possibilità di provare la succulenta cucina del nord a prezzi davvero stracciati (tra i 5 e i 20 bath per singolo assaggio, quindi tra i 14 e i 50 centesimi di euro), con i venditori che vengono da tutta la provincia per proporre le loro specialità. L’atmosfera è davvero rilassata perché c’è soprattutto gente del posto, e ci sono anche qui e là spettacolini di danza o musica tradizionale. I clou della serata sono due: scoprire un’area piuttosto ampia con orchestra e decine di persone che ballano in gruppo in una sorta di balera di liscio thailandese, e soprattutto la mia gioia quando trovo un gelato artigianale al tè verde. Ho imparato ad amare il gelato al tè verde in un ristorantino di Berlino specializzato in soli ramen, e in effetti l’unico posto dove si trova questa squisitezza sono i ristoranti giapponesi. Per questo, pure se in Thailandia il prezzo del gelato è relativamente alto, non resisto e prendo due ottime coppette una dietro l’altra. Il mercato ci riconcilia con l’abbandono di Chiang Mai: Gerard ne è talmente entusiasta che ha deciso di tornare a Chiang Rai appositamente per questo night market, dopo la mia partenza.
Il giorno seguente passo prima di tutto all’Hill Tribe Museum and Education Center, un museo etnologico sui popoli non nativi che abitano queste montagne, anche perché ho letto che organizzano alcune belle escursioni. In realtà però le cose non sono come pensavo: mi aspettavo di trovare qui un’offerta di escursioni più ampia e soprattutto più economica rispetto a Chiang Mai, anche per la maggiore vicinanza delle comunità tribali, e invece scopro che, indipendentemente dall’agenzia, sembra proprio essere il contrario. A questo punto, avendo deciso comunque di tornare un’altra volta per concentrarmi appunto sulle montagne al confine tra Thailandia, Birmania e Laos, lascio perdere e decido di non fare escursioni ma di vedere le altre cose che la città offre, anticipando di un giorno la partenza per il Laos.
La maggior parte delle attrazioni principali sono però nei dintorni della città, sparse in direzioni diverse ma ognuna ad almeno 10-12 km, per cui la scelta migliore sarebbe quella di affittare uno scooter e in una giornata riuscire ad accorpare le tre principali. Il problema è che con la partenza in dubbio io non ho più chiesto la patente internazionale, e Gerard neanche l’ha più fatta perché, convinto che ormai io non partissi più, non intendeva noleggiare niente da solo. Ovviamente chi affitta scooter qui dice che non c’è problema, ma noi a Chiang Mai abbiamo visto la polizia in un posto di blocco in città fermare macchine e motorini guidati da stranieri e fare multe un po’ a tutti. Certo, la patente di Gerard è comunque scritta in inglese, ma nel dubbio decidiamo di andare a chiedere alla polizia, che qui in Thailandia ha sempre un comodo ufficio rivolto ai turisti. Il dialogo con il poliziotto è surreale: in sostanza ci dice che certo che possiamo noleggiare lo scooter o la macchina senza la patente internazionale, o meglio, fintanto che non siamo fermati dalla polizia non c’è problema. Come dire: certo che potete, basta non farvi beccare dalla polizia. Il che non fa una piega, ma non ti aspetti che te lo dica proprio un poliziotto. Decidiamo di non rischiare, non tanto per l’eventuale multa quanto perché, in caso di incidente, potremmo risultare non coperti dall’assicurazione perché privi di adeguata patente di guida. Io però non voglio farmi sfuggire due posti che mi sembrano troppo kitsch per non essere visti: stranamente è uno dei pochi casi in cui la Lonely Planet è più approfondita della Rough Guide, forse perché decisamente poco tradizionali come attrazioni e molto pop: giustamente la guida li presenta insieme parlandone un po’ come di un viaggio al paradiso e all’inferno.
Nel dubbio fondato di riuscire a vedere entrambi con i mezzi pubblici, scelgo di assicurarmi l’inferno, perché si sa, i cattivi sono sempre più affascinanti dei buoni. Ci vuole un po’ con il bus locale (un bus veramente scintillante!) per arrivare all’incrocio dove parte la strada per la cosiddetta Casa Nera, o Baam Dam in lingua locale. Mentre percorro a piedi gli ultimi 700 metri mi rendo conto dal flusso continuo di bus e mini-bus che questo posto è davvero preso d’assalto dai turisti. Io sinceramente ho letto distrattamente e quindi non so bene cosa aspettarmi, ho un po’ di curiosità ma senza nessuna idea di cosa mi troverò davanti. Quando arrivo, dopo una lunga teoria di bar, parcheggi e venditori ambulanti, davanti a me c’è un grande complesso di strutture quasi tutte in legno nero, il sogno di un artista locale, Thawan Duchanee, che ha nel corso di 50 anni ha costruito una sorta di intero villaggio “dark”. L’area è pensata come un museo etnografico diffuso, con oltre 40 edifici per lo più di legno, alcuni visitabili e altri dai quali si può solo guardare l’interno da fuori grazie ad ampie vetrate. Gli oggetti raccolti dovrebbero riflettere la cultura popolare ma hanno tutti questa impronta vagamente diabolica, con tanti simboli più o meno inquietanti che sembra di trovarsi dentro un film pensato insieme da Lynch, Burton e Carpenter, o dentro una puntata della prima stagione di True Detective ambientata qui invece che in Lousiana.
Arrivare verso l’ora di pranzo non è una cattiva idea, perché ci sono davvero tanti turisti, soprattutto cinesi, e visitare l’area richiede un po’ di tempo. Così si può restare fino alla chiusura del museo, alle 17.30, quando non solo non c’è quasi più nessuno ma la luce diventa davvero bella, almeno d’inverno. Vi rimando alla galleria in fondo all’articolo per altre foto, che probabilmente valgono più delle parole per posti come questo. In ogni caso io mi sono divertito molto! Al ritorno torno più o meno con lo stesso costo dell’autobus dividendo un taxi con una coppia tedesca, con l’autista che non smette di ridere guardando i tatuaggi e i piercing del ragazzo tedesco.
A questo punto il piano sarebbe partire la mattina presto per arrivare al confine con il Laos in tempo per prendere la barca che in due giorni di navigazione sul Mekong dovrebbe portarci a Luang Prabang, nostra prossima destinazione. Però l’idea di non vedere anche il paradiso, dopo essermi divertito all’inferno, un po’ mi dispiace, e visto che Gerard non è entusiasta della sveglia all’alba, troviamo un’altra soluzione con la partenza al pomeriggio e un pernottamento in un paesino thailandese vicino al confine. Il giorno dopo riesco così a dedicare la mattina alla visita del Wat Rong Khun o White Temple, un altro complesso opera di un’artista contemporaneo, Chalermchai Kositpipat. Anche qui, di fronte al grande e bianchissimo tempio principale, tutto gesso e specchi riflettenti, l’aggettivo che viene in mente è “visionario”: l’opera, la ricostruzione di un antico tempio buddista completamente reimmaginato, è stata inaugurata solo nel 1997 ma è talmente ambiziosa che i nove edifici progettati non saranno completati prima del 2070, e per questo Kositpipat sta addestrando diversi “discepoli” (così li chiama) che dovranno continuare il lavoro dopo la sua morte.
Il modello Sagrada Familia è naturalmente ben presente, ma qui è tutto molto più pop: il tempio da lontano sembra un castello di Disney, e all’interno dell’area sacra gli affreschi surrealisti che circondano la statua di Buddha ritraggono, tra gli altri, le Torri gemelle sotto attacco, Elvis Presley, i Pokemon, Neo di Matrix, Terminator, Hello Kitty e varie altre figure della cultura popolare contemporanea. La cosa notevole è che ci sia parecchia gente che viene qui davvero per pregare, attorniata dalle immagini di Michael Jackson, dei Transformers o di Doraemon. Anche il White Temple è preso d’assalto da pullman e minibus, per cui il consiglio è sempre di andarci la mattina presto o nel tardo pomeriggio. C’è anche un museo con i quadri di Kositpipat, che sono tutti in vendita per finanziare il suo mastodontico progetto. E ci sono migliaia di ciondoli a forma di foglia con o senza campanellino, che da quello che ho capito servono per propiziare la buona fortuna, appesi uno accanto all’altro in numero impressionante. Per il resto, vi lascio alla galleria!
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